Pare che in Coldiretti lo sfornare dati a tamburo battente sia pulsione irresistibile. E lo fanno su tutto. Se grandina, un paio d’ore dopo hanno già stimato i danni su scala geografica millimetrica mentre a Ferragosto o a Capodanno danno al centesimo la spesa degli Italiani in pranzi e cene. Il più grande sindacato agricolo italiano pare abbia un esercito di dipendenti pronti ad analizzare qualsiasi fenomeno e a fornirne puntualmente il valore economico, attività che però non pare sia svolta con la dovuta solerzia come ha dimostrato Luciano Capone, giornalista de “Il Foglio”. In un paio di editoriali ha messo a nudo i calcoli sballati di Coldiretti, in primis quelli relativi al Pil del settore agroalimentare, valore che Coldiretti valuta pari al 25 per cento di quello complessivo italiano, 538 miliardi di euro su oltre duemila e cento. Di seguito i due editoriali, uno di Maggio e l’altro di Ottobre, ovviamente pubblicati col permesso del Quotidiano e dell’Autore.
Editoriale 19 Ottobre
Coldiretti dà i numeri
È una cifra che viene ripetuta costantemente, in tutti i comunicati stampa acriticamente rilanciati da giornali e tv: il 25 per cento del Pil. A volte Coldiretti precisa anche il numero in valore assoluto: 538 miliardi di euro. Tanto sarebbe l’impressionante valore della “filiera agroalimentare”. L’ha ripetuto al recente Villaggio Coldiretti … il leader dell’organizzazione: “Non possiamo delocalizzare, dobbiamo difendere l’eredità dei nostri padri – ha detto con retorica patriottica lo storico segretario generale di Coldiretti, Vincenzo Gesmundo – . La prima voce del Pil italiano è agricoltura e agroalimentare, il 25 per cento del pil nazionale”. Si tratta di un’affermazione non solo falsa, sebbene ripetuta come vera da anni, visibilmente fuori scala per chiunque abbia una minima idea di cosa sia l’economia italiana. In ogni caso, a smentire il dato di Coldiretti c’è il rapporto Ismea appena pubblicato: secondo i dati dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, il valore aggiunto della filiera agroalimentare nel 2022 è arrivato a 64 miliardi di euro e non 538 miliardi come sostiene Coldiretti. 37,4 miliardi generati dal settore agricolo e 26,7 miliardi dall’industria alimentare. Si tratta, dice Ismea, del 3,7 per cento del Pil italiano: sette volte meno di ciò che dice Coldiretti. Naturalmente è una fortuna che sia così, perché in genere il settore primario pesa il 25 per cento del Pil nei Paesi sottosviluppati e dove c’è un’agricoltura di sussistenza. Siccome negli anni i partiti e i governi, di tutti i colori, parlando di “interesse nazionale” si sono accodati alle battaglie di retroguardia di Coldiretti, dal no agli ogm ieri al divieto alla “carne sintetica” oggi, passando per le lotte protezionistiche contro gli accordi di libero scambio, viene il sospetto che la politica creda all’immagine sopravvalutata di sé che Coldiretti proietta sui media. L’interesse nazionale è fatto di sviluppo e innovazione, il suo ostacolo di proibizionismo e protezionismo.
Editoriale 13 maggio 2023
Il Censis dà in numeri sull’industria alimentare
Ha avuto molto risalto mediatico – anche perché presentato a Montecitorio insieme ai ministri dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e del Made in Italy Adolfo Urso, un rapporto di Federalimentare-Censis sul “Valore economico e sociale dell’industria alimentare italiana”. Ciò che ha colpito di più sono i numeri sul valore della “filiera del food italiano” che “ha un fatturato annuo di 607 miliardi di euro, 1,3 milioni di imprese e 3,6 milioni di addetti”. In pratica, secondo il Censis, “il fatturato della filiera del food italiano ha un valore pari al 31,8 per cento del valore del Pil”. Ma se 3,6 milioni di addetti producono circa un terzo del pil, vuol dire che gli altri circa 20 milioni di occupati che ci sono in Italia producono appena i due terzi del Pil. È un dato sorprendente, che ha dell’incredibile. E infatti non è vero. Perché il Censis, come fa anche la Coldiretti, per il fatturato usa i dati che non hanno nulla a che vedere con il pil che misura il valore aggiunto. La mela venduta dall’agricoltore al grossista, dal grossista negozio al dettaglio e dal negozio al consumatore, nel fatturato viene contata tre volte. Mentre nel pil il valore aggiunto della mela entra una sola volta, come differenza tra prezzo di vendita e costi intermedi. Si tratta di grandezze molto diverse. Non a caso, per l’Istat il valore aggiunto della filiera agroalimentare è infatti 4-5 volte inferiore al fatturato. Rapportare quindi il fatturato al pil non ha alcun senso, perché è come – tanto per stare in tema – paragonare le pere con le mele. È un errore marchiano, che però torna utile se si vuole mostrare un peso superiore alla realtà di un settore nell’economia. E in questo errore il Censis è recidivo. Perché prima dello studio commissionato da Federalimentare, ne ha prodotto un altro commissionato da Ance e altri operatori dell’edilizia che – usando scorrettamente il dato del fatturato – mostrava un impatto abnorme del Superbonus sul gettito fiscale. Errare humanum est, perseverare Censis.
Fonte dei dati utilizzati da Capone per la sua inchiesta, oltre a Ismea: https://www.istat.it/it/files/2021/06/IWP_4-2021.pdf